Uno sguardo al “dietro le quinte” del progetto promosso dal Comune rivolto ai ragazzi delle scuole superiori
È una fredda giornata di novembre. Ho da poco terminato una presentazione in classe, ed è già ora di andare. Ho un appuntamento all’Istituto Pascal, una delle scuole superiori della città. Una specie di ritorno alle origini, per una studentessa universitaria al secondo anno di magistrale. Con qualche differenza. Questa volta, infatti, i miei compagni di banco sono dei docenti. La professoressa è una giornalista e comunicatrice scientifica. La materia? Una disciplina del tutto diversa dalle solite: oggi vado “A scuola di data journalism”.
A raccontarne storie e segreti è Elisabetta Tola, un’esperta di questa forma di giornalismo, tra le poche a professarla in Italia. Ha negli occhi la luce di chi ama quel che fa e vuole condividere la sua passione con il mondo. Ne rimango subito affascinata, e mi lascio con piacere trasportare dalla sua voce.
Il nostro viaggio inizia dai momenti fondamentali del data journalism: dalle mappe di Florence Nightingale, alla carta di Charles Minard, alle inchieste di Philip Meyer e Simon Rogers, passando per la testata online Propublica, fino alle più recenti indagini condotte in Italia da Wired e Agi. Tappa dopo tappa diventano sempre più chiare le molteplici funzioni di questa forma di giornalismo: aiutarci a sviluppare capacità di analisi e di critica rispetto alle notizie con cui veniamo in contatto, stimolarci nella verifica delle informazioni che leggiamo, motivarci ad essere cittadini attivi, e soprattutto ad essere sempre consapevoli delle nostre scelte ed azioni.
Ma come si fa questo data journalism? Innanzitutto, collaborando. La disciplina, infatti, unisce tra loro diverse competenze: quelle dello sviluppatore, che si preoccupa di ricercare i dati, quelle dello statistico, che li elabora e li analizza verificandone relazioni significative, e quelle del giornalista, che ha il compito di raccontarli in una modalità chiara e facilmente fruibile dal lettore. Sembra complicato, vero? Fuori portata, almeno per la maggior parte di noi.
C’è una buona notizia: fare data journalism non è più così difficile. Negli ultimi anni, infatti, il mondo degli open data si è fatto molto più open, e sempre più dati sono stati messi a disposizione di chiunque abbia le competenze e la volontà di analizzarli da istituti come l’Istat, dai Comuni, ma anche da altri enti pubblici, come l’Arpae. Parallelamente, anche gli strumenti con cui raccogliere, elaborare, analizzare i dati e produrre infografiche, diagrammi, mappe per renderli comprensibili si sono moltiplicati. E sono oggi sempre più accessibili e facili da usare. Non abbiamo quindi più bisogno di grandi team per eseguire questo tipo di investigazioni, bastano un po’ di competenze informatiche e tanta voglia di conoscere, e far conoscere, il fatto accertato che si nasconde tra le righe delle storie che quotidianamente ci vengono raccontate. Il dato vero, libero dall’opinione e verificato nella sua interpretazione.
Ecco perché diverse scuole della città hanno deciso di mandare i propri docenti “A scuola di Data Journalism”: affinché insegnino ai loro ragazzi ad usare questi dati come fonte per analizzare il mondo che li circonda, come risorsa per verificare la veridicità delle notizie che circolano off e online, e chissà, anche come radice per costruirsi la professione di un domani.
E siccome siamo convinti che tanto, da questo percorso, potremo imparare anche noi, abbiamo deciso di raccontarvi le tappe del viaggio in questo blog. E di portare anche voi, attraverso queste pagine, “A scuola di Data Journalism”.
Stephanie De Monte